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Bolaffiarte / Summer 1974

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zionale che caratterizzava le rassegne veneziane precedenti? 

Verrà a mancare come termine prestabilito: non ci sarà più la sorpresa, ma non è certo nostra intenzione abbandonare quella tradizione di incontri e confluenze che ci sembra positiva. Anzi, nostro preciso scopo è di esaltarla e renderla attiva tutto l'anno con proposte interessanti. 

GLI ARCHITETTI ALLA BIENNALE

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Contrordine! Il telegramma del Ministero conteneva un errore; sei stato nominato alla Biennale non alla Triennale.

Venezia avrà dei vantaggi? 

Venezia non ha certo problemi economico-turistici da Pasqua a metà settembre. Anzi, di solito è fin troppo affollata. Ciò non vuol dire che non ci sia un vuoto: il pubblico della Biennale è di certo più interessante di quello stagionale. Dalla nuova formula estesa a tutto l'anno, dovrebbero derivare soprattutto benefici obiettivi nel periodo di bassa stagione di Venezia, cioè oltre settembre. 

Nella sua posizione di presidente della Biennale ha subito molte pressioni politiche? 

Sì e tante. Da un lato mi fa piacere che ci siano, perché significano interesse. Per molto tempo si è pensato alla Biennale come a una specie di riserva di spiriti  bizzarri da far sfogare con un po' di denaro pubblico. Oggi, anche da parte del potere politico, ci si è resi conto che la Biennale vale come un grande comune italiano, un vero e proprio centro di potere. Che si esprimano queste pressioni può essere un pericolo, ma è anche un punto di forza: se si stabilisce un argine, non è un male, si dovrebbero ottenere soldi e più attenzione. 

Come mai avete raggruppato in un unico settore Arti visuali, discipline diverse come architettura, urbanistica, design, arti visuali e cultura? 

Prima di tutto per motivi di carattere culturale. Cioè per ridurre la separazione tra un'espressione artistica e l'altra. Un tentativo questo di integrazione delle arti. Vogliamo stabilire un rapporto interdisciplinare che mi para corrisponda alle ricerche artistiche attuali. Infine per ragioni di ordine operativo e finanziario. 

Perchè è stato scelto Gregotti, un a architetto, come direttore della sezione Arti visuali e Architettura? Personalmente Lei tra un architetto e un critico d'arte chi avrebbe preferito? 

Un architetto, perché in grado, con l'appoggio della commissione per le Arti figurative (5 membri tra cui 2 stranieri, forse Jean Leymarie e Szeeman) di cogliere una visione generale dell'operare artistico nella società contemporanea. Oppure un uomo della misura di Argan, che si è espresso su un insieme di temi. Altrimenti avrei pensato a forze dinamiche e attive come un Calvesi, un Ponete o il giovane Maurizio Fagiolo. L'importante era che questo settore non fosse preda delle gallerie o delle cosche universitarie o di uomini con troppe zone pole-miche alle spalle. Di fondamentale importanza saranno comunque i commissari e gli esperti, affiancati al direttore, che in parte ho già consultato e che rappresentano le forze più vive e attive della nostra cultura. Penso a Franco Russoli, a Guido Ballo, a Raffaele de Grada, a Daniela Palazzoli, Emilio Isgrò, Lea Vergine, Tommaso Trini, e molti altri. 

Come risolverete il problema della proprietà dei padiglioni stranieri? 

Abbiamo 27 padiglioni di proprietà di Stati stranieri, da sempre organizzati col sistema dei commissari. Cioè ogni governo indica un commissario secondo criteri che variano di paese in paese. Questi in pratica sceglie, imballa e porta a Venezia. Si tratta di un criterio che sconfina nell'ufficialità, nell'aspetto burocratico e governativo dei paesi, di cui alcuni molto pesanti in termini politici come Spagna, Grecia e Cile. Lo stesso avviene per i paesi dell'Est, uno dei settori più difficili. I governi scelgono e scegliendo premiano e notificano i conformisti, di qualsiasi regime si tratti. Quindi o si trova un accordo, e io sono intenzionato a battermi per trovarlo, o si va a una separazione di fatto, sia pure cordiale.

Che cosa pensa di proporre?

Con i 27 proprietari vorrei in pratica fare questo discorso: siete 27 contro i 133 paesi dell'ONU. Non abbiamo né la Cina né l'India, non abbiamo i quattro quinti del mondo. Quindi propongo di affidare a noi l'uso dei vostri padiglioni, cioè una specie di demanio morale della Biennale, in coerenza con l'articolo dieci dello Statuto che dice: 

<>. Tutto ciò con la garanzia di non fare una serie di manifestazioni di italiani o di soli amici degli italiani. Una seconda possibilità è quella di proporre di trasformare i padiglioni in laboratori di ricerca per i giovani, il che attenuerebbe il carattere governativo e ministeriale della questione. Terza possibilità è di transformare i padiglioni nel luogo rotante delle loro gallerie. Cioè rappresentare la selezione del mercato. Altrimenti, nessuno può negar loro di esporre ciò che vogliono. Ma in questo caso senza di noi, cioè senza l'Italia (che ha il padiglione più grande), e nei mesi in cui non ci siamo noi. Noi non intendiamo più fare una Biennale con i Ministeri degli Esteri.

Lei ha annunciato un'ampia partecipazione femminile in ogni sezione. A che cosa si deve tale novità?

È paradossale che nel consiglio direttivo composto da 19 membri, eletti con le responsabilità di tutte le forze politiche, non ci sia una sola donna. Ciò significa utilizzare soltanto una parte della nostra cultura attuale. Perciò ho voluto radicalizzare il problema. Nel 1974, voglio che entrino forze della portata di una Natalia Ginzberg, Dacia Maraini, Françoise Giroud, Susan Sontag, Daniela Palazzoli, Lea Vergine. Avere le donne ai poteri decisionali, è una maturazione necessaria per il nostro paese.  E poi si impone a Venezia, dove c'è la celebre collezione di una donna come Peggy Guggenheim. 

GREGOTTI

LA RIVOLUZIONE INIZIA AD OTTOBRE

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Vittorio Gregotti, professore ordinario di composizione architettonica all'Università di Palermo, autore di numerosi libri e saggi, è uno degli architetti più impegnati ed attenti della generazione intorno ai quarant'anni. Seppure non abbia una specifica competenza, ha però sempre partecipato attivamente ai problemi e alle esperienze della cultura artistica italiana e internazionale. A lui è stato affidato l'incarico di dirigere il settore Arti visuali che comprende da un lato architettura e urbanistica, dall'altro arte figurativa, scultura e design.

BOLAFFIARTE: Perché hanno scelto lei, un architetto, come direttore della sezione Arti visuali?

VITTORIO GREGOTTI: In un primo tempo si parlava della mia elezione per la sezione di architettura, la novità più grossa, che dapprima doveva essere introdotta in un modo indipendente, con un proprio direttore. Quando si è deciso di unificare i due settori, al consiglio direttivo è parso che fosse un architetto la persona più adatta per ricoprire tale carica. Prima di tutto perché le arti figurative avevano alle spalle una lunga tradizione, seppure da modificare e trasformare. L'architettura, al contrario, è da creare completamente da zero. In secondo luogo, ci sono le commisioni composte da specialisti che devono fare il lavoro specifico. Proprio perché le commissioni lavorano su temi critici e devono essere competenti nel loro settore, il direttore può esporsi come la persona che agisce, coadiuvato e indirizzato dagli esperti. C'è poi una ideologia precisa alla base di tutto ciò: l'idea del progetto. Cioè si pensa di lavorare a lungo termine sui processi, cioè i progetti, che precedono l'opera. Ci pare che sia questo l'aspetto oggi più importante in ogni ramo, dalle arti figurative all'architettura, al cinema, al teatro, alla musica.

Quali sono le sue idee sul futuro della Biennale?

Premetto che sono stato eletto da

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BOLAFFIARTE 81